Posts written by Sky Eventide

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    Storiella pseudo-natalizia che magari avrei inviato al contest sul Natale, se l'avessi notato prima. XD Senza grandi pretese. Il titolo è ripreso dal verso di un coro di voci bianche, che si intitola appunto "In the bleak midwinter" e ad un certo punto recita "earth was hard like iron, water like a stone".

    In the bleak midwinter ~ Terra come acciaio, acqua come pietra



    La neve brilla sotto il sole alto. Tanti piccoli cristalli in dune di neve non ancora calpestata.
    Sulla cima della collinetta, un abete fronzuto e carico di fiocchi è stato circondato da piante di agrifoglio, con le bacche rosso scarlatto. Da quella parte della salita, la neve è battuta da molti piedi.
    Lachlan si avvolge meglio le mani nel pezzo di stoffa; le dita sono rosse e fredde. In piedi, recita gli antichi canti romani del Sol Invictus, sottovoce, adorando l’abete consacrato. I piedi sono chiusi negli stivali imbottiti di pelo, che però ormai sono quasi zuppi, e il pellicciotto cencioso al collo non trattiene gli spifferi di aria gelida.
    Tuttavia, mormora la sua preghiera.
    Sion, al suo fianco, si china. Ginocchia sulla neve dura e pestata, mani intrecciate. La testa di capelli color carota matura chinata, mentre dedica le sue preghiere a tutt’altro dio. Lachlan corruga appena la fronte.
    Non è da solo, il suo amico, c’è qualche altro discepolo della nuova divinità; alcuni di loro, con le tuniche logore e non adatte all’inverno, stanno legando due rami liberi dalle fronde con uno spago, a formare una croce.
    Il fiato si condensa in nuvolette.
    Pur continuando a recitare il canto in un sussurro, Lachlan distrae la vista nell’osservare quegli individui; una donna scava nella neve con le mani e uno dei due che hanno costruito la croce ne pianta la base nella buca. Si inginocchiano lì, Sion invece è troppo assorto nella sua preghiera per spostarsi.
    Lachlan rivolge di nuovo gli occhi all’abete e agli agrifogli. Si rinnovi l’anno, mormora il suo canto, sorga il sole, si sciolgano le nevi.
    L’idillio silenzioso e freddo, tuttavia, si interrompe in fretta; il brusio delle parole viene spezzato da un’esclamazione.
    « Cosa fate? » sbraita la voce.
    Lachlan si blocca e alza gli occhi, infastidito. Vede, tuttavia, che è un fattore del paese, un uomo anziano; indossa una pelliccia e gesticola verso i pochi che pregano attorno alla croce.
    « Via da qui! Non appropriatevi di questo luogo! » Afferra i rami che formano il simbolo cristiano e li toglie dalla neve, spintona la donna che prova a opporsi. Butta la croce sul manto nevoso. « Via, ho detto. »
    Lachlan corruga la fronte e abbassa gli occhi su Sion. La sua bocca screpolata è dischiusa, gli occhi sconcertati. Magari vuole protestare. Che stupido. Lachlan gli afferra una spalla e sussurra: « Andiamocene. »
    Lo tira in piedi.
    Sion boccheggia e si volta indietro, verso i cristiani che come lui abbandonano l’abete, tra sguardi di sbieco, alcuni pietosi, altri di rimprovero. Poi gli punta in faccia gli occhi azzurri: « Tu non hai motivo di allontanarti. »
    Danno le spalle agli agrifogli sacri; Lachlan lo fissa storto. No, è vero, non ha motivo di interrompere la venerazione di Yule, ma non lo lascerebbe andare da solo.
    Ha i piedi sempre più gelidi, mentre scende per la china bianca, ancora tenendo la spalla dell’amico incupito. Alla destra si stende una piana luminosa, che in primavera e in estate è un campo d’erba, sulla sinistra una staccionata marcia divide la strada battuta da innumerevoli piedi da alberi carichi di neve.
    Di fronte a loro, distante dieci minuti di cammino, si intravedono i tetti spioventi di paglia e legno, la stalle e le recinzioni del villaggio.
    Cinque passi avanti, una bambina si immobilizza; Lachlan la studia con la fronte corrugata, ne osserva l’abito cencioso, rattoppato con filo spesso, e gli stivaletti consumati, le braccia esili, lo scialle sfrangiato sulle spalle. La bambina scivola piano sulle sue ginocchia, ma troppo incurvata per credere che tenti di nuovo di pregare.
    Lachlan stringe le labbra ma non fa in tempo a stringere la presa sulla spalla di Sion che questo è già sgusciato via, con una mano nel suo tascapane. Lachlan sbuffa dal naso e l’aria si condensa.
    Sion si è chinato di fronte alla piccola, le mormora qualcosa.
    Riesce a intravedere mentre la bimba annuisce e Sion le lascia in mano del pane.
    Ah, ecco, lo immaginava. Santi dei.
    Lachlan si affretta verso l’altro e lo solleva di forza, senza incontrare alcuna protesta. La bambina si sgranocchia il pane, con gli occhi spalancati, le mani quasi gelate e il viso rosso di freddo.
    Lachlan volta Sion a forza, inquadrandolo nella sua pesante casacca nera.
    « Vuoi per favore evitare di farti vedere mentre distribuisci cibo? E’ la nostra cena. »
    Gli occhi di Sion sono gelidi. « E’ la mia religione. Ci vuole anche qualcuno che salvi quelli come questa bambina. »
    « Sì. E mi pare che ci vuole anche qualcuno che ti salvi dalla tua bontà. »
    Lo strattona giù per la neve battuta e Sion, anche se con le labbra strette, lo segue docilmente. Lachlan si struscia la punta fredda del naso e si volta: la bimba è ancora lì in ginocchio, a mangiucchiare e custodire il parco pezzo di pane secco.

    Quando sull’orizzonte bianco scompaiono anche gli ultimi riflessi rossastri del sole sulla neve, il freddo diventa tale che Lachlan non riesce più a parlare. Il paese è buio, ci sono solo ancora delle torce accese attorno all’albero d’abete sulla collinetta.
    Fermarsi tra un muro e l’altro delle case vorrebbe dire morire assiderati.
    Sion è incurvato nella sua mantella, il cappuccio sollevato sui capelli rossi. Non troveranno posto in taverna, non hanno di che pagare, tuttavia Sion è da quella parte che si dirige.
    Lachlan lo segue affrettando il passo, comincia a credere che gli dovranno amputare le dita dei piedi se si congelano più di così. Sion però non punta l’entrata dell’edificio, ma una porta laterale. Vi si appoggia e la spinge: è aperta.
    Lachlan si sporge all’interno. C’è del fieno accatastato, della legna e qualche pecora, con un odore di neve sporca. Può andare.
    All’esterno i fiocchi fluttuano leggeri come cotone e nella stalla filtrano da alcune fessure tra le assi.
    Sion si lascia cadere contro al fieno, non lontano dalle pecore, e Lachlan scivola al suo fianco.
    La catasta di cibo per le pecore buca attraverso il mantello e il pellicciotto al suo collo non lo protegge a sufficienza. Ringrazia mentalmente Sion per le sue occasionali idee.
    Il corpo dell’altro, oltre alle pecore, è l’unica fonte di calore. Lachlan si avvinghia e lo abbraccia, per formare un unico cumulo di cenci e abiti, incassandosi nel fieno. Persino il fiato che Sion gli soffia vicino alla mascella sembra freddo.
    Ha le mani intirizzite. Sion ha anche gli occhi e il naso arrossati dal gelo. Gli passa le mani sulla schiena, sotto la pelliccia.
    Lachlan batte i denti e fissa il muro di legno scuro.
    «Non ti addormentare »soffia.
    Sion annuisce in silenzio.
    E’ l’ultima notte dell’inverno, la più lunga di tutte.

    C’è silenzio. A parte il loro fiato, l’occasionale belato di una pecora e qualche rumore dall’interno della taverna, Lachlan non sente nulla. Struscia spesso le mani assieme e sulla schiena di Sion, che ha il viso calcato contro al suo collo, mentre lui si è tirato la pelliccia grigia fin sopra la testa. I capelli biondo slavato gli coprono gli occhi.
    E’ per il silenzio notturno che, appena dei passi risuonano vicini dentro all’edificio di legno, Lachlan fa scattare la testa.
    Sul muro c’è una porta, fino ad allora ben chiusa; il rumore di un chiavaccio di ferro rugginoso che scorre gratta nelle sue orecchie; anche Sion alza gli occhi e dell’aria fredda entra tra di loro.
    Un uomo dai tratti indefiniti compare sulla soglia, troppo in ombra per distinguersi, scende l’unico scalino di pietra e si avvicina alla catasta di legna; è lì che li vede. Lachlan distingue a malapena una luce che si riflette nei bulbi oculari di quell’uomo, mentre li fissa sconcertato.
    « Cosa… chi siete? Che fate qui? » sbotta.
    Lachlan cerca di deglutire e, con la voce che trema appena per il freddo, mormora: « Ci ripariamo. Non abbiamo dove dormire. »
    Sion aggiunge, sottovoce: « In nome di Dio, lasciateci entrare. »
    Non avrebbe dovuto dirlo. Lachlan serra la mascella e si trattiene dal colpirlo per la sua cieca fede. Non avrebbe dovuto, perché l’uomo in ombra si raddrizza in tutta la sua stessa. « Siete cristiani? Non voglio vedere nessuno di quei mendicanti, qui dentro. Fuori immediatamente. Fuori! »
    Si alzano in piedi all’improvviso, spinti dal tono minaccioso. Appena è in piedi, Lachlan sente l’amico cedere nelle gambe e anche lui le ha abbastanza rigide e intirizzite da faticare nel muoversi, ma l’urgenza di andarsene lo spinge a trascinarsi e a trascinarlo fuori dalla stalla.
    Digrigna i denti. Avrebbe potuto dire di non condividere quel nuovo culto che Sion abbraccia. Avrebbe potuto.
    Appena mettono piede fuori, faticando a spingere la porta nella neve fresca, si sente un’asta di legno che cade a sbarrare l’entrata. Una folata di aria fredda gli riempie i vestiti.
    Il cielo è grigio, non si notano stelle, e la neve cade lenta, sopra altra neve. Bianco ovunque.
    Lachlan si volta verso l’altro, rannicchiato ad abbracciarsi da solo. « Idiota » sibila.
    Riceve solo uno sguardo cupo, ma orgoglioso, dagli occhi azzurri di Sion, che non risponde.
    Devono cercare qualcos’altro, un altro fienile, un altro nascondiglio.
    Lachlan prende Sion sottobraccio e si chiude la pelliccia sul viso, per esporre quanta meno pelle gli è possibile alla temperatura fredda. I suoi stivali non possono reggere ancora troppo nella neve fresca, in cui il piede affonda e arranca.
    Non fanno molti metri, nella strada bianca: Sion fatica a seguirlo. Riescono ad arrivare nell’ampia piazza, dove a malapena le case di sasso e legno si distinguono, come macchie nere nel buio.
    Lachlan sente cedere la propria presa, o meglio, sente cedere ciò che sorregge; si volta, e Sion è caduto in ginocchio. Il suo mantello ruvido è coperto da piccoli fiocchi.
    « Sion. » Lachlan si piega, gli prende le spalle. « Alzati in piedi. Alzati. »
    Non gli risponde.
    Gli volta il viso, e anche con la mano rinchiusa nella stoffa a mo’ di guanto riesce a sentire quanto sia fredda la sua guancia. Ha gli occhi chiusi e le labbra cianotiche.
    Lachlan cade in ginocchio a sua volta, gli pare quasi che le proprie articolazioni non rispondano più dei comandi; solleva l’altro per la schiena, gli regge la testa.
    « Sion » chiama. « Svegliati. Se svieni qui… »
    Sarà come essere due statue gelate e coperte dalla neve.
    Non ottiene risposta alcuna.
    « Sion! »
    No, non sopporterebbe la solitudine, se morisse per il gelo e solo per aver creduto nel suo nuovo dio. Ha la pelle bluastra e marmorea, ed è come se la terra fosse dura come l’acciaio e l’acqua come pietra. L’aria tagliente lo raggela.
    Lachlan sente gli occhi bruciare, ma non ha nulla da piangere. Troppo freddo anche per quello.
    « Yule » prega sottovoce. « Salvalo. Non è la vigilia dell’inverno che finisce? Salvalo. »
    Si preme il viso pallido di Sion contro la spalla, gli avvolge la schiena nella pelliccia.
    « Mitra, dio del sole che ritorna. Yule. Salvalo. Ti prego. »
    Non ci sarebbe una metafora più eloquente del silenzio per la lama di freddo che lo prende in petto, simile all’ultimo attimo di disperazione.
    Lachlan alza gli occhi secchi al cielo coperto, da cui nevica delicatamente.
    « Cristo! Dio dei giusti! Se questo è il tuo discepolo, salvalo per la fede che ti dedica! Mi basta uno di voi, uno… uno soltanto. »
    Abbassa lo sguardo su Sion, ancora immobile. Così immobile.
    Avverte un passo di fronte a sé, piedi leggeri che affondano nella neve fresca e la sfaldano. Lachlan solleva il viso di scatto: è la bambina, quella di quel mattino, magra e smunta, con la sua casacca troppo leggera e lo scialle sulle spalle. Eppure non sembra accusare il freddo.
    Li guarda, l’uno e l’altro. Ha ancora il pezzetto di pane stantio che Sion le ha offerto, almeno la parte che non ha mangiucchiato.
    Lachlan la fissa e lei, alternando l’occhiata da lui a Sion, sorride.

    Un lieve tepore gli riscalda la schiena. Lachlan muove appena le dita e, sorprendentemente, i polpastrelli hanno sensibilità.
    Sgrana gli occhi. E’ quasi sdraiato sul terreno, stringe ancora Sion: il viso dell’altro è pallido, ma sulle gote c’è del rossore, il che gli garantisce che è vivo. Ancora vivo, fino all’alba.
    Quando poi alza gli occhi, infreddolito ma non raggelato, vede… quello che ha intorno. O meglio, quello che non ha intorno.
    Un cerchio perfetto, con loro come centro, definisce un'area nella piazza; un cerchio dove non c’è neve, si vede invece la terra scura, umida, dove l’unica erba che cresce è fredda e coperta da piccoli fiocchi di ghiaccio.
    Sciolta, scivolata via in rivoli d’acqua, che inzuppano anche i suoi abiti, quando i tetti spioventi del villaggio, le staccionate e le colline sono coperte da almeno un metro di neve luminosa e sfumata d’azzurro, nella luce soffusa del sole che nasce. Non c’è più traccia della bambina.
    «Lachlan… »
    Abbassa gli occhi. Sion ha sollevato le palpebre.
    Lachlan sorride e tutta la rigidità del suo corpo si allenta come il ghiaccio sciolto. A fatica, l’altro ruota il collo e osserva, sgranando un poco gli occhi, il cerchio di calore che li circonda. «Questo… cosa…? »
    «Ho pregato »sussurra Lachlan.
    Non sa quale dio lo abbia ascoltato, se Yule, Mitra o Cristo.
    «E sono stato esaudito. »
    Forse tutti loro assieme.
    Il sole gli abbaglia gli occhi.
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    Ma per curiosità, se lo stesso racconto viene mandato una seconda volta, "sostituisce" la versione precedente come ho visto fare in altri concorsi? °*°

    Kupò.
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    CITAZIONE (Serena PnC @ 28/12/2012, 20:56) 
    ...e sticavoli XD Ma dove trovi il tempo? *invidia*

    ...Lo tolgo al resto. XDDD

    Kupò.
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    Troppa roba. 8D

    Vorrei riuscire a finire di scrivere una originale ambientata nell'Ottocento e come tema principale la musica e i musicisti, che ho in testa per come inizia, per come finisce, ma non per quello che ha nel mezzo. XD

    Voglio proseguire una mia raccolta/multicapitolo ancora originale, ambientata nel Medioevo, e incentrata sulla magia, le streghe, le creature sovrannaturali e il macabro. Mi piacerebbe farla leggere a più persone di quante non la seguano adesso e, se ne fossi in grado, di trarne qualche one-shot più lunga o una trama meno "a episodi".

    Vorrei scrivere le due originali one-shot mancanti di una trilogia ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale.

    Vorrei partecipare a qualche contest, finire tutte le fanfiction e le originali che ho scelto come prompt dal p0rnfest di fanfic_italia, magari produrre delle one-shot dettate dall'ispirazione improvvisa.

    Vorrei anche finire una lunga one-shot fantasy originale che ho ferma a pagina diciotto e che non prosegue causa problemi nel descrivere qualche intrigo politico decente. XD

    ...E credo basta. 8D

    Kupò.
  5. .
    Una matita descritta attraverso l'olfatto.

    A una prima annusata, sa di legno trattato con una pittura o un lucidante. Questo odore, lievissimo, permane se passi il naso per tutta la lunghezza, finché poi non ne hai le narici piene e finisce che non senti proprio più niente.
    Arrivando a una delle estremità, invece, il naso potrebbe cominciare a pizzicare. Dall’altra estremità, quella appuntita con il temperamatite, il pizzicore diventa più forte: un odore ferroso di grafite e della sua polvere, uno leggero di segatura di legno se non è stata appuntata bene.
    Profuma un po’ di cartoleria e di negozio per artisti, è il genere di odore che intensificato potresti trovare in tutti i cassetti di un disegnatore e sui polpastrelli delle sua dita.

    Kupò.
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    C'hai ragione, non ci avevo fatto per nulla caso alla cosa dell'odore. XD Terrò da conto poi.
    Se riuscissi a tirarne fuori 1000 parole farei anche quello del vegetariano. °*° Solo che nel disgusto mi sono già impegnata.

    Kupò.
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    Leggilo assolutamente, che è stupendo. =ç=
    Peccato per l'edizione Mondadori che ha un po' di errori di stampa qui e lì, dei refusi randomici che però mi disturbano.

    Comunque, fossi in te Pratchett lo leggerei. Ha fatto anche una saga sulle streghe, di cui se non erro il primo libro parodizza le opere di Shakespeare (nel caso di quel libro, Macbeth soprattutto.)


    Kupò.
  8. .
    Fallo, è un romanzo sempre da dare i brividi. **

    Kupò.
  9. .
    Per me, sì, si può.
    Tanto per cominciare la scrittura è fatta di lessico, grammatica e sintassi, ed è innegabile che queste cose si imparino, a scuola e leggendo.
    Poi, ovviamente, è anche fatta di tecniche narrative, e anche quelle si imparano.
    Forse è probabile che non tutti siano "portati" a scrivere, che non tutti possano raggiungere livelli di eccellenza, ma di sicuro chiunque si impegni nel conoscere le tecniche narrative e, ovvio, nello scrivere spesso, può raggiungere almeno un livello medio-alto.
    D'altronde i manuali di scrittura (o i blog a tema) servono proprio per illuminare gli scrittori o aspiranti tali riguardo certi trucchi o espedienti che migliorino il loro testo.

    Kupò.
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    buona-apocalisse-a-tutti-L-lUTVOI


    Devi leggere "Buona Apocalisse a tutti!" di Terry Pratchett e Neil Gaiman (in inglese "Good Omens")
    Era tantissimo tempo che non finivo un libro elettrizzata, affascinata, innamorata della storia e dei suoi personaggi, tantissimo tempo che non ridevo tanto leggendo e che non sfogliavo l'ultima pagina con un brivido iperattivo e totalmente esaltato.

    L'ironia e lo stile fresco e immediato di Terry Pratchett lavora benissimo con la capacità di Gaiman di creare trame. I personaggi sono indimenticabili (i miei preferiti, l'angelo Azraphel, il demone Crowley, e Adam che non rivelo chi sia).
    In breve, è la storia dell'Apocalisse annunciata. Di un libro di profezie che ha già scritto tutto e di un angelo e un demone che decidono che la fine del mondo non gli sta bene, e che sono anche palesemente sposati. Si aggiungono i Quattro Motociclisti dell'Apocalisse, un cacciatore di streghe e il suo allievo, la discendente di una strega, una sensitiva che mette annunci sul giornale, l'Anticristo, Paradiso e Inferno, una banda di quattro ragazzetti combinaguai e delle cassette dei Queen.
    Condite tutto e shakerate.
    Otterrete qualcosa di meraviglioso.

    Kupò.
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    E' meraviglioso.
    Veramente da far venire i brividi.

    Kupò.
  12. .
    Risposta completa, grazie. XD

    E, anche io vedo disponibile la sezione per postare le proprie storie, come Laly, ma non avendo la password per accedere non posso comunque entrarvi. XD

    Kupò.
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    #1 Descrivi in 1000 parole i pani facendoli apparire disgustosi (invece che appetitosi XD)

    Kurt pranza in automobile. Passa praticamente tre quarti della sua vita, in automobile, in quanto autista, e la parte peggiore è che è costretto a mangiare in fretta.
    Di solito accende la radio con un CD di Madonna, si rilassa sullo schienale e apre il cartone della pizza. Sfortuna vuole che il Pizza Hut fosse troppo lontano e ha dovuto accontentarsi degli hamburger.
    Madonna, gli hamburger.
    Kurt storce le labbra e inclina il collo; quelle quattro scatoline di cartone unto con le pubblicità gli fanno riscoprire quale parte di lui non si sente americana. Allunga un dito e preme il pane, così rotondo e uguale a quando lo vede fotografato nei cartelloni pubblicitari che quasi penserebbe che sono i panini di Barbie Casalinga. Rimane l’impronta del polpastrello per qualche attimo. Hanno persino il bordo strinato dalla griglia.
    La sua povera automobile, resterà impregnata da quell’odore di fritto in serie per giorni e nemmeno le meraviglie dell’Arbre Magique potranno essergli d’aiuto. Sai che bello presentarsi più tardi dal Capo con quel puzzo di hamburger preconfezionato sopra la giacca; non potrà neppure pettinarsi di nuovo i capelli, o puzzeranno anche quelli.
    Kurt, arricciando il naso, scosta un poco il pane di uno degli hamburger e alla sua vista si dispiega una stupenda distesa di insalata pesta, un pochino bucherellata, con l’aria di essere stata troppo in un frigorifero. Non si sono neanche degnati di tagliare via il gambo duro e insapore, che cazzo. Non che si aspettasse alta cucina.
    La carne è bruciacchiata e il pomodoro troppo acquoso, sta rendendo molliccio il pane. Cristo Santo.
    Venderebbe l’anima per una pizza.
    Decide in automatico che quel panino farà un viaggio di sola andata verso il bidone della spazzatura. Inspira, gonfia il petto e si fa coraggio, lanciandosi nell’esplorazione di quello di fianco.
    Ciò che vede... somiglia a patate stinte tagliate a fette rotonde – o magari sono cipolle geneticamente modificate e un po’ troppo gialle – assieme a una lasagna sciolta e a un’altra misera e solitaria foglia di insalata.
    Va bene, scartato.
    Certo è che ad un certo punto della tua esistenza dovresti saper riconoscere le speranze che vale la pena coltivare e quelle che sono vane e inutili; le sue nei confronti degli hamburger fanno tristemente parte della seconda categoria.
    Quello che si è disfatto di più, con le due fette di pane plasticato tenute assieme solo dal cartoncino unticcio, è un frullato di verdure tagliuzzate, una fetta di pomodoro sottile ed enorme, una di insalata bianchiccia, il tutto condito da abbondanza di senape.
    Oh, Madonna, potrebbe divertirsi all’indovinare a quale specie appartenga ogni pezzettino di verdura affogato nella salsa. Forse c’è anche della maionese. Ah, no, quella gliel’hanno data a parte. Sta lì di lato assieme al ketchup e sono entrambe le confezioni un po’ troppo lucide, il che gli fa credere che i suoi condimenti siano stati a loro volta conditi con senape. O olio di frittura, o con quello che trasuda dai panini solo a guardarli.
    Madonna lo consola con “Material Girl”, perché neanche la Coca Cola – acquosa, con troppo ghiaccio – a quel punto potrebbe fare miracoli.
    Ultimo tentativo che, magari, è quello buono.
    In effetti l’hamburger restante è messo meglio del resto: stessa foglia enorme di insalata, con un gambo simile a quello di una sequoia, un serpente panciuto di maionese su una metà di panetto, dall’altra parte dei crauti grigliati. Puzza anche quello, eh, però almeno sembra fatto con ingredienti terrestri.
    Kurt prende con diffidenza uno dei fazzoletti azzurri e afferra la scatolina di cartone, estraendola con una certa cautela dal vassoio di plastica; cautela inutile, perché qualche maledetta divinità quel giorno lo odia e il panino di fianco cade su un lato. E’ quello che più che un panino sembra un frappé salato e un po’ tossico, da cui prontamente rotolano fuori un po’ di pezzettini arancione medicina, marrone bruciatura e verde disinfettante – forse carote trifolate, melanzane e zucchini, ma non ci giurerebbe. Un po’ di senape si spiaccica sul vassoio.
    « Madonna. Se puzzo di questa roba il Capo mi ammazza. »
    Non ha mai sentito che il Signore sia particolarmente schizzinoso in quanto a odori, ma neppure un maledetto spazzino probabilmente apprezzerebbe quello di quei panini sopra a dei vestiti; e gli spazzini di odori schifosi ne sentono parecchi.
    Aspetta, ora che la nota, nel mezzo a quell’amalgama di roba c’era anche una mozzarella tagliata a metà, che forse una volta era bianca.
    Corruga la fronte e deglutisce.
    Pizza, oh, pizza.
    Spalanca la bocca per addentare l’hamburger, un poco sporto avanti per evitare che rimasugli di maionese gli precipitino sulla camicia.
    Il bello è che il Capo offre anche un servizio mensa piuttosto buono, di cui Kurt usufruirebbe con piacere, quando ne avesse il tempo; è che ancora non ha ben capito dove si trovi; e non ha neanche le palle di importunare qualche agente per farselo dire.
    Quindi, morso sull’hamburger. Il panino di Barbie cosparso di sesamo si piega con una certa docilità, anche se in effetti gli sembra di addentare della gomma; ci resta addirittura la stampa dei denti.
    L’insalata, come previsto, è del tutto insapore; gli sfrega sotto i molari perché troppo dura nel gambo, mentre troppo inconsistente nella foglia. La maionese, beh, quella non lo tradisce: è maionese.
    I crauti... Cristo misericordioso, i crauti. Hanno qualcosa di troppo dolciastro, ma non hanno affatto perso il loro retrogusto amarognolo.
    Un miscuglio dal sapore troppo forte che gli impasta la bocca.
    Kurt biascica il morso e ingoia in nome dello stomaco pieno. Se tuttavia la prospettiva sono altri quattro panini ancor più unti forse farebbe bene a far turbinare il tutto fuori dal finestrino per via direttissima.
    E’ abbastanza certo che le patate, o cipolle, come anche i pomodori, siano un po’ cancerogeni.
    Ucciso da panini velenosi e dalla loro farcitura troppo viscida e troppo fritta.
    Posa di nuovo con cautela l’hamburger nel vassoio, sopra al dramma di senape e verdure unticce, struscia assieme le dita per disfarsi dello sporco e sposta gli occhi fuori dal finestrino, alla ricerca di un cassonetto.
    Inutile morire per via del pranzo, avrebbe smesso di fumare per niente.

    Kupò.
  14. .
    Hai anche ragione riguardo l'impatto emotivo diverso delle due frasi, ma è naturale che per conto mio si può rivolgere una frase come "non hai fatto nessuna buona descrizione" a qualcuno solo se questa cosa è vera.
    E' inutile andarci pesante con le vie di mezzo (storie discrete ma carenti in qualche modo) ed è inutile mortificare chi, nonostante la scarsa bravura, ci mette impegno.
    I casi che a mio parere richiedono la, come dire, schiettezza, sono proprio quelli che si pongono già da principio con una certa arroganza o che sono sordi alle critiche velate. In quel caso tanto vale andarci giù pesante con l'impatto emotivo, fermo restando che non si deve scadere nell'offesa, altrimenti avrebbero ragione nel dire "c'è modo e modo".
    Rimango lo stesso dell'idea che il contenuto della frase sia più importante del modo in cui è esposta, entro il limite del rispetto alla persona in sé. Dopotutto io ho il diritto di dire che un libro (in quel caso ci si aggiunge anche la questione dei soldi pagati e dello spazio sugli scaffali, quindi l'offire consapevolmente al pubblico il proprio prodotto letterario) mi "fa schifo", dando tutte le mie motivazioni. "Mi fa schifo perché..."
    Magari sono un po' impietosa, ma ritengo che non ci sia nulla ad impedirmelo finché l'opinione è argomentata.
    (Anche se comunque capisco perfettamente il tuo punto di vista, duedicoppe =ç=)

    Kupò.
  15. .
    Uhm, proverò a rispondere.
    Tendenzialmente ho il difetto di essere un po' spietata nel dire le cose agli altri, e capita pure che sia intollerante. XD Nel senso che se vedo che una tale persona fa ripetutamente errori di grammatica e ha un'età che supera i quindici/secidi anni (per tenersi larghi) inizio pure ad arrabbiarmi, perchè a quel punto o sei dislessico (e lì il "problema" è di tutt'altra natura e non mi compete) o sei un ignorante che non ha mai imparato a usare bene la propria lingua.

    Comunque, restando nel discorso.
    Per conto mio, distinguo le critiche in tre categorie, chiamiamole così: critiche offensive, critiche che tentano di essere costruttive ma sono fatte da persone che ne sanno meno di te, critiche costruttive.
    Una critica offensiva va a colpire chi scrive ("sei un incapace, devi smettere di scrivere, non sai fare nulla", per non citare turpiloquio di varia natura) e, ovviamente, esula del tutto il "c'è modo e modo", perché è un attacco all'autore e non dovrebbe nemmeno esistere.
    Una critica costruttiva da qualcuno che non sa di cosa parla è quel genere di commenti che potrebbe fare un profano, un qualcuno che commenta il tuo scritto tanto per fare, che dà consigli/fa critiche in base al proprio mero gusto e non tiene da conto in nessun modo l'effettiva qualità del testo. E' pur sempre un lettore e lo scrittore può anche mettersi lì e considerare da cosa sono scaturite certe affermazioni, ma, nella mia modesta opinione, non va tenuto troppo in considerazione. Può aver espresso il suo parere anche con educazione, ma manca lo stesso di contenuto. Se invece si è espresso anche con maleducazione, il suo commento sfocia quasi nell'offesa (non solo non ha basi comprovate e non aiuta a migliorare, ma è persino fastidioso.)

    Veniamo invece alla critica costruttiva fatta con cognizione di causa. In quel caso io penso che il "tono" debba passare in secondo piano, fino al momento in cui non sfocia nell'offesa.
    Personalmente, se devo fare commenti aspri, cerco di essere molto impersonale e analitica, di modo che sia impedita qualunque rimostranza un po' ridicola alla "ce l'hai con me".
    Credo che dire "non hai fatto nessuna buona descrizione e il testo è pieno di ripetizioni" non sia affatto diverso da "credo che le tue descrizioni siano inaccurate e che tu abbia ripetuto troppe volte gli stessi termini". Il secondo è più educato, mettiamola così, ma entrambi i commenti, se argomentati e con prove alla mano, hanno lo stesso identico valore di critica.
    E' pure vero che certe persone non sono capaci di accettare commenti negativi, per un motivo o per l'altro, e che prendano come un attacco al loro orgoglio e bravura una frase che non tergiversa o un recensore che non addolcisce la pillola.
    Credo che sia sciocco e poco "professionale" l'accettare delle critiche solo se chi le fa ti lecca e unge dalla testa ai piedi. C'è pieno di persone che si sentono offese nella propria identità nonostante tu commenti in modo negativo solo quello che scrivono e, per me, vuol dire semplicemente che non sanno guardare le proprie abilità in modo obbiettivo.
    Fine del papiro. D:

    Kupò.
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