Prima o terza persona?

Qual è la più vantaggiosa?

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  1. Slapjack
     
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    Nihao!

    Sono nuova di qui, ma vi ho già tempestato il forum di post xD
    La mia domanda è molto semplice: quali sono i pro e i contro della prima e della terza persona?
    Ho intenzione di iniziare una nuova storia, ma sono troppo indecisa.
    Con la prima riuscirei ad avere una completa padronanza sulle sensazioni del mio protagonista, giostrandomi i pensieri, rendendo lo scritto più colloquiale e, per certi versi, coinvolgente. Ma è anche vero che con la terza persona riuscirei a parlare di tutto e su tutto, senza remore, descrivendo cose al di fuori delle capacità del protagonista, comprendendo tutti i personaggi, ampliando notevolmente il punto di vista dell'intera vicenda.
    Cosa dovrei fare?
    E' possibile che la scelta dipenda anche dal tipo di storia o è questione di un mero gusto personale?
    E se fosse una terza persona ma fortemente e prettamente legata al protagonista (tanto da sembrare quasi una seconda persona) sarebbe accettabile?

    Xiexie :)
     
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  2. Parole nel Cassetto
     
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    La prima e la terza persona singolari hanno una lista infinita di pro e di contro. Non è mai questione di mero gusto personale, perché una scelta determinante come quella della persona da utilizzare ha un impatto incredibile sull'intera impalcatura della storia.

    Diciamo che in qualità di autori avete una prima e fondamentale responsabilità nei confronti del lettore, che è quella di fargli capire che cavolo sta succedendo. Il problema è che la voce del personaggio è uno degli elementi che caratterizza il personaggio stesso. Uno ragazzino di dodici anni, ad esempio, appassionato di skateboard e di Pokémon, avrà un lessico e un modo di esprimersi completamente diverso da quello di un anziano professore di storia pensionato. Di fronte al pannello di controllo della cabina di pilotaggio di un jet di linea, una casalinga quarantenne di Sussummano di Sotto avrà qualche difficoltà a dare un nome a tutti i pulsanti e a tutte le levette, al contrario di un pilota con brevetto che possiederà tutto il lessico tecnico che serve per descrivere minuziosamente la scena di un decollo.

    Siamo di fronte quindi a un bel dilemma: da una parte, abbiamo il dovere di descrivere la scena al lettore che ci sta leggendo e di fargli capire cosa sta succedendo; dall'altra, non dobbiamo dimenticare chi sta raccontando la storia. Noi, è vero, ma attraverso la voce del nostro personaggio. E come farà un ragazzino di dodici anni a descrivere, ad esempio, cosa succede in una sala operatoria, dal momento che non conosce il nome degli strumenti chirurgici? E non è solo questione di lessico, ovviamente. Non bisogna dimenticarsi l'impatto emotivo.

    Prendiamo, ad esempio, di dover descrivere la scena dove un ragazzino viene investito mentre inseguiva la palla rotolata in strada dal giardino. Pensiamo di descrivere la scena dal punto di vista della madre, che assiste impotente all'incidente dal patio di casa. Che tipo di descrizione ne verrà fuori? Da una parte, abbiamo l'obbligo di raccontare cosa succede al bambino (lui che corre in strada inseguendo la palla, la palla che rimbalza fuori dalla sua portata, l'auto che arriva a velocità sostenuta), ma dall'altra dobbiamo ricordarci che chi sta descrivendo la scena è sua madre. Che giudizio dareste al personaggio di una donna che descrive freddamente e meticolosamente tutti i dettagli dell'incidente che ha coinvolto suo figlio? Che giudizio dareste al personaggio dell'uomo qualunque che, di ritorno dal lavoro, trova il cadavere di una prostituta in un vicolo e si mette a elencare con dovizia di dettagli tutte le caratteristiche delle ferite e la posizione del cadavere?

    Il che, intendiamoci, non è di per sé "sbagliato". È vostro diritto scrivere di una madre insensibile, o comunque di una persona talmente fredda e razionale da riuscire a rimanere lucida in un momento terribile come l'incidente del proprio figlio (ognuno reagisce al dolore in modo diverso), come è possibile creare un personaggio morbosamente attratto dalla morte, e per questo affascinato dalla scoperta del cadavere e ben felice di darne una descrizione dettagliata. Il problema è, ovviamente, l'essere consapevoli dell'effetto che si sta creando. Vuoi davvero creare il personaggio di una donna fredda e distaccata, o hai fatto prevalere la funzione "narrativa" su quella "emotiva"?

    Non bisogna poi cadere nel falso mito per cui un racconto scritto in prima persona sia emotivamente più toccante di un racconto scritto in terza. Non è assolutamente vero. Lo stesso tipo di introspezione, lo stesso tipo di intensità, lo stesso tipo di profondità può essere dato benissimo anche dalla terza persona.

    La terza persona "legata al protagonista" è la c.d. terza persona limitata. Non assomiglia alla seconda persona (che poi sconsiglio con tutto il mio cuore, a meno che di casi eccezionali che non mi vengono nemmeno in mente).

    Su carta vanno bene tutte e vanno male tutte. Prova a cominciare a scrivere questa storia, vedi un po' dove ti porta, e se la persona che ti viene spontaneo usare ti dà più soddisfazioni o più grattacapi. Io, di pancia, mi sento di consigliare una terza, che raramente si sbaglia. Semmai facci leggere qualcosa di tuo :) Potrebbe aiutarci a capire meglio il tuo problema.
     
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  3. Slapjack
     
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    Sostanzialmente, anch'io ho sempre prediletto la terza persona, più per il fatto di poter raccontare di tutto e su tutto, anche "ciò che al protagonista sfugge". Da più giovincella adoravo immedesimarmi nel mio personaggio, ma persino una me undicenne ha capito che la cosa avesse i suoi svantaggi. Mi ritrovavo limitata e un po' mi pentivo di incapparmi nella prima persona, che non ho mai più usato. Traumi adolescenziali.
    Solo ora, da un anno a questa parte, ho ripreso la cosa e, problema della prospettiva a parte, l'ho rivalutata molto, ricavandone tutti i pro.
    Per quando dico "più colloquiale" e "coinvolgente" intendo, ad esempio, questo mio scritto, che mi ha divertito un sacco impersonare, anche se magari nella maniera scorretta:

    CITAZIONE
    [...]Ed eccolo là, la mia vittima, un signore pelato e baffuto intento a leggere il quotidiano locale, ignaro di cosa gli stia per accadere.
    Inutile dire che una volta arrivato alla cassa tiro fuori la pistola.
    “Mani in alto, bello”, annuncio con voce contraffatta dal cartoncino della maschera.
    Come l’uomo solleva gli occhi dal giornale, il suo volto si tinge di bianco, cadaverico. Lo vedo agitarsi alla vista dell’arma. Cazzo se è fatto davvero bene ‘sto gingillo. Alza le mani e bofonchia qualcosa che non capisco.
    “Mettimi tutta questa roba nei sacchetti e aggiungici anche due stecche di Marlboro rosse”.
    Il baffuto annuisce impercettibilmente e fa come gli ho detto. Si sta talmente cagando sotto che non riesce a centrare le buste con le scatole di cereali.
    Apro il cane, giusto per fare un po’ di scena. “Veloce”.
    Che bello comandare le persone. Che bello vederle scattare ad un tuo ordine ed eseguirlo senza fiatare. Essere dei criminali non è poi così brutto, tutto sommato. Il potere ti dà un’assuefazione tale che neanche le droghe che spaccio si sognano lontanamente.
    Tre buste colme ora mi aspettano sopra il bancone. Mi infilo le stecche nelle tasche del mio eskimo e mi guardo in giro. Ho paura di dimenticare qualcosa.
    “Svuota la cassa, va”.
    Ogni mia parola è sacra. Come un burattino fedele ai propri fili, quel pisciasotto mi consegna tutto il guadagnato di quella giornata. Sorrido dietro la maschera, famelico. Glielo strappo di mano, cercando di mantenere un certo autocontrollo.
    Ma qualcosa va storto.
    Quel fottuto volto di carta di V mi tradisce. Quelle stupide mezzelune vuote che ha per occhi non mi permettono una completa visuale. Devo abbassare il capo per vedere dove ficcare le banconote, distogliendo lo sguardo dall’ostaggio. Ed è allora, in quel lasso di tempo striminzito, che il cagasotto rivendica un nuovo soprannome. Il fucile a pompa Winchester che imbraccia e che mi punta alla testa mi suggerisce di ribattezzarlo in duecoglionicosì.
    “Non muovere un solo muscolo”, mi propone da sopra la canna, occhio sinistro chiuso per prendere la mira. “O ti faccio saltare quella piccola testa di cazzo che ti ritrovi”.
    Conciso. Talmente chiaro che ci vedo attraverso.
    Mi vedo costretto a tendere le mani verso il soffitto, come un idiota. Non ci voleva proprio questo imprevisto, accidenti. Dove ho sbagliato? Sarà il karma, senza ombra di dubbio.
    Lo adocchio sollevare la cornetta del telefono senza smettere di tenermi sotto tiro. Punta per un secondo gli occhi alla tastiera per digitare il numero. Sta abbassando la guardia, e ancora per pochissimi istanti.
    Al diavolo.
    Ora o mai più.
    Scavalco il bancone con un balzo e gli sono addosso. Vasetti di sugo e confezioni di gelato sfuso cadono dalle buste aprendosi sul pavimento. Quando le mie suole lo colpiscono sullo sterno gli parte un colpo, che mi sfreccia di fianco, ad un centimetro dalla tempia. Che figlio di puttana. C’è qualche colluttazione, mani che strangolano a turno colli, pugni sugli zigomi, nasi grondanti. Con un calcio allontano il fucile, che scivola fino sotto allo scaffale delle caramelle e lì resta. Paradossalmente non vorrei mai che qualcuno ci lasciasse le penne.
    Quel duecoglionicosì è più forte di quello che pensassi. Mi sta sopra, con tutto il peso, ad inchiodarmi la schiena al suolo. Gli leggo negli occhi collera e follia. Non dev’essere bello farsi rapinare e prendere a cazzotti in un tranquillo mercoledì pomeriggio, all’orario di chiusura. Posso capirlo. Fossi in lui mi strozzerei con il filo del telefono.
    Manco a leggermi nel pensiero, il pelatone baffuto afferra la cornetta e mi attorciglia la gola con il cavo. Devo smetterla di mandarmele.
    Tira talmente forte che inizio a vedere tutto appannato. Apro la bocca e lascio penzolare la lingua in un futile gesto di asfissia. Cerco di strappare il filo ma è troppo stretto. E’ diventato una mia seconda pelle. Provo a conficcare le unghie nelle mani del negoziante, ma niente, come di marmo. Digrigna i denti, geme un po’, diventa paonazzo. Quasi quasi sembra che stia soffocando lui. La rabbia gli dà alla testa. Mi vuole morto e basta. Legittima difesa, dirà alla polizia. Ha cercato di derubarmi e poi spararmi, si giustificherà. Mi ha messo a gattoni per violentarmi, ingigantirà.
    Fatto sta che non respiro. Potrei anche autografargli il copione dopo, ma ora è essenziale che dell’aria mi passi per la trachea.
    Poi le vedo, con la coda dell’occhio, nonostante le lacrime che iniziano ad annidarsi tra le palpebre. Sono circondate da una luce aurea, come un oggetto divino venuto dal cielo. Un paio di forbici da carta, lama di ventun centimetri, lì, a terra. La mia voce si riduce in un soffio sottomesso, come un sibilo acuto, ma allungo comunque la mano verso l’arnese. Le dita si arrampicano come ragni sulla moquette, incastrandosi, dopo qualche fallimento, nei buchi vuoti del manico. Ora sono sul mio palmo, non possono sfuggirmi.
    Si chiama legge del più forte. Istinto di sopravvivenza. Solo chi è in grado di difendersi ha il diritto di vivere. O lui o me, non ho molta scelta. Come se fossi indeciso su quale prendere.
    Le impugno saldamente e ci vado giù secco. La punta è un po’ arrotondata, se non la conficco deciso rischierei di fare la figura dell’imbranato. Nonostante l’assenza di ossigeno che inizia a togliermi ogni energia, il movimento del braccio si rivela risoluto.
    Zac.
    Sono talmente preciso che potrei fargli una tracheotomia. Ho una così gran voglia di respirare che mi è venuto d’impulso mirargli alla gola. Il sangue sgorga dalla pugnalata finendo in goccioloni sulla mia maschera. L’uomo strabuzza gli occhi, boccheggia un po’ e poi finalmente molla la presa. I polmoni riiniziano a funzionare così di colpo che mi fanno male. Tossisco convulsivamente e mi strappo di dosso quel maledetto filo telefonico.
    L’uomo è a carponi, occhi fuori dalle orbite, bava alla bocca che cola sul pavimento. In un attimo la camicia gli si riempie di sangue, le forbici rimangono conficcate lì. Le sfiora con le dita ma pare non si azzardi a sfilarsele. Forse fa bene, sanguinerebbe di più.
    Stacco la presa del telefono e lo prendo a pedate finché non si rompe. Sul bancone noto un bicchierone di Coca Cola ancora colmo. Lo prendo e lo verso sul pannello di controllo delle telecamere interne. Un forte odore di bruciato mi pizzica il naso. Arraffo ancora due stecche di sigarette e raccolgo alla rinfusa ciò che è caduto dalle buste durante la zuffa. Il tempo di occuparmi entrambe le mani che butto un occhio sul negoziante.
    Morto dissanguato, a pancia in giù. La lama delle forbici gli si è conficcata ancora di più nel collo.
    Do un’occhiata in giro.
    Non ho dimenticato nulla.
    Le porte si aprono al mio passaggio.[...]

    Però anche la terza persona ha i suoi però. Per quanto mi riguarda, odio non riuscire a farmi capire (come adesso? xD). Spiego subito: se ci sono, ad esempio, tre ragazzi che intavolano una discussione faccio una fatica tremenda a fare capire al lettore chi sta parlando e con chi. Non mi piace essere ripetitiva e dire tremila volte il nome del personaggio, ma se inizio con i pronomi finisce che non è chiaro a chi si riferiscano dei tre (lui, lo, oppure anche "il ragazzo"). Una prima persona invece rende la scena più nitida, anche perchè il protagonista non ha il problema di autonominarsi in alcun modo. Non so se si è capito xD
    Esempio:

    CITAZIONE
    [...]Gli diede un paio di pacche sulla spalla, un po’ derisorie, un po’ commiseranti.
    “Tutto qui?”, gli fece, schernendolo. “Morto un Papa se ne fa un altro, no?”
    Ethan chiuse gli occhi, inspirando a fondo. Lasciò pendere la testa di lato, scuotendola lentamente, rassegnato. L’aveva sempre saputo di non poter contare su Jayden per queste cose. Cosa aveva sperato di ottenere parlandogliene?
    “Fanculo, Jay”, sbuffò solamente, scostando il busto per sfuggire a quel gesto subdolo di conforto.
    Jayden alzò le mani fingendosi offeso, ma con sempre quel sorriso strafottente stampato sul volto.
    “E che ho detto adesso?”
    “Chissà perché il fatto che tu non capisca non mi sorprende”, interferì Jonah, sempre dalla sua postazione.
    L’altro si girò di scatto a guardarlo, sentendosi irritato come se gli avesse appena tirato una sberla.
    “Nessuno ha chiesto la tua opinione, rockstar”, ribatté, arcigno.
    Jonah si strinse nelle spalle, placido, per nulla volente a lasciarsi istigare da lui, a dargli soddisfazione.
    “Nessuno chiede mai la mia opinione, ma a quanto pare ne so più io di te riguardo a Ethan”, rimbeccò sostenendo fermamente il suo sguardo.
    Jayden increspò le sopracciglia, frastornato. “Ma che cazzo stai…”
    “Quella chitarra aveva un valore affettivo che neanche ti immagini”, lo interruppe lui. “Era un regalo di un suo vecchio amico che ora non c’è più.”
    “Basta così, Jonah”, lo zittì Ethan, diventato stranamente irrequieto.[...]
    [...]“Chi erano i ragazzi che Adam ha accompagnato all’ospedale?”, chiese a Jonah con una punta di alterigia.
    Lui permase a fissarlo con assoluta freddezza. “Non lo so, non li conosco.”
    L’altro si scaldò un attimo, spazientendosi. “Sì, ma com’erano fatti? Ce n’era per caso uno alto, capelli sconclusionati e biondi e una tremenda faccia da culo?”.
    Ethan comprese all’istante a chi si riferisse e si voltò verso di lui. Inarcò un sopracciglio cogliendo l’allusione e il sospetto che trapelava dai suoi occhi.
    “No, non mi pare”, sbuffò l’altro. “Uno aveva i capelli blu e le braccia piene di tatuaggi, mentre l’altro un paio di occhiali e una gamba rotta.”
    “Munro”, pensò a voce alta Jayden. “Cazzo di esibizionista.”
    “E tu?”, chiese poi al californiano. “Chi ti ha conciato così?”[...]

    Non so se ho reso l'idea (ne ho approfittato per farmi bacchettare da voi, se non si fosse capito xD)

    Un ultimo esempio poi, giuro, torno a studiare: qui di seguito ho provato (scusate la crudezza dello scritto) ad usare la famosa terza persona "legata al protagonista" (o almeno, penso che sia così). Scelta sbagliata?

    CITAZIONE
    [...]«Vai di là, che c’è la nonna e sai che se non la saluti si offende.»
    Ma che cazzo gliene frega a lui della nonna?
    Achille sbuffa un secondo prima di varcare la soglia del soggiorno.
    Il clima natalizio che alberga in quella sala lo si può dedurre dall’albero addobbato, dalla tavola imbandita, dai piatti e tovaglia rossi, dal vischio attorno ai candelabri, ma non di certo dalle facce dei presenti. Sono tutti in silenzio, con i musi lunghi, a fissarlo. Perlomeno da quando è entrato lui.
    Per un attimo si sente a disagio. Per un attimo il desiderio improvviso di dare fuoco a tutto e di scappare dalla finestra gli solca la testa. Ma poi gli passa. Poi pensa che tanto e comunque ci rimane legato lì, bigodini della nonna bruciati o meno.
    A proposito.
    La nonna.
    Una nonna che sembra un nonno, con tutti quei baffi e la parlata da trans per troppe sigarette. Una nonna con una presa della mano ferrea, che gli artiglia il colletto della giacca, tirandolo a sé.
    «Brutto sciagurato, ti sei deciso ad arrivare, eh?», barrisce, sprizzando saliva ad ogni “s”.
    La nonna lo odia. Così come lui odia lei, d’altronde.
    Qualche pacca, uno o due sguardi minacciosi, e il giro dei parenti se l’è fatto. I parenti di Cristina.
    Ma chi cazzo se li piglia? Passi per i genitori e per i genitori dei genitori, ma tutti gli altri?
    La fidanzata dello zio della nonna della nipote che abita accanto al marito della sorella del cugino.
    Chiaro, no?
    E la causa di tutto, l’unico arpione che lo inchioda lì, dentro a quella bara, è lei.
    Michela.
    Quella testa di cazzo di sua figlia Michela. Quella quindicenne perennemente mestruata, quell’adolescente odiosa, insolente, da prendere a ceffoni. L’errore più meschino che avesse potuto fare. L’errore che lo vincola a stare lì, da Cristina, tutti i Natali. E Epifanie. E Pasque.
    Tutto per un preservativo tenuto per troppo tempo nel portafoglio.
    Tutto perché quella troia di Cristina non ha abortito.
    Puttana.
    Non voleva neanche scoparsela, cazzo. Se l’è inculata, ok, ma alla fine quella gli ha ricambiato il favore. E la sua, di inculata, ha fatto decisamente più male.
    Troia.
    Michela rotea gli occhi all’insù quando Achille le si avvicina, sollecitato da Cristina. Per Michela, Achille è uno sfigato di merda, uno che a trentacinque anni indossa ancora il chiodo con le borchie e che mette i piercing alla lingua. Uno che si crede giovane quando invece iniziano già a spuntargli i primi capelli grigi.
    E anche lei sa che lui la odia.
    Tutti sanno che lui odia tutti, in quella sala.
    Tutti sanno che lui è lì perché è in punizione. A vita.
    Achille abbraccia Michela, sollecitato da Cristina. E Michela si irrigidisce, facendo uscire dai denti un “che palle”.
    Achille la strangolerebbe se non ci fosse Cristina. E il padre. E la nonna ermafrodita. E la zia. E il cugino. E ‘sto cazzo.
    «Come va la scuola?», le chiede Achille, sollecitato da Cristina.
    «Va.»
    Eppure anche a sua figlia non gliene frega un cazzo. Eppure persino sua figlia gli scioglierebbe le redini, lasciandolo libero di galoppare, lontano.
    Eppure, eppure.
    Ma tanto è ancora lì e sono passati quindici anni.
    «Ce l’hai il ragazzo?», le chiede Achille, sollecitato da Cristina.
    Ma stavolta Michela non risponde. Stavolta Michela batte il piede a terra e guarda sua madre dietro di lui, indispettita.
    «Mamma…!», si lagna come se dovesse mangiare sterco di mucca, vomitarlo e rimangiarlo.
    Achille sa che anche lei si sta trattenendo. Sa che non lo manda a fanculo solo perché c’è Cristina lì.
    «Su, coraggio, tesoro», le risponde lei, categorica.
    Michela digrigna i denti e ritorna a guardare Achille, labbra arricciate in segno di stizza.
    «No», sillaba con una violenza tale da risultare simile ad un cazzotto.
    E se ne va, ancor prima che Cristina protesti, ancor prima che Achille le sputi in un occhio.[...]


    Edited by Slapjack - 21/1/2013, 21:57
     
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2 replies since 19/1/2013, 15:31   100 views
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